La Fine del Nuovo, The End of New

Villa di Toppo Florio, Burrito, Udine

1.04. – 1.05.2017.

Curated by: Paolo Toffolutti

Artists: Vespa Bukovec, Maurizio Ciancia, Davide Grazioli, Zlatko Kopljar, Olson Lamaj, Antun Maračić, Bruno Morello, Petra Mrša, Pantani Surace, Gioacchino Portelli, Oliver Kessler, Vivianne Van Singer, Jelena Vladusic, Regan Wheat

Compra, Vendi, Compra, Vendi…

Dagli anni ’50 del ‘900 e forse già da prima, l’opera d’arte ha rotto gli ormeggi ed abbandonato quel peculiare aspetto distintivo che la faceva riconoscere come unica e differente rispetto a tutti gli altri aspetti dell’esperienza esistenziale umana. Prima del ‘900 l’aspetto distintivo veniva custodito dalla qualità della fattura o dalla capacità di trasformazione dell’invenzione artistica precedente; col ‘900 tutto ciò sembra venir meno, e pare che si proceda a erodere tali rerogative o indicatori di appartenenza all’esperienza artistica, stressando le pratiche e le forme retoriche per esplorarne le convenzioni ed i limiti. Con la ripresa, nel secondo dopoguerra, molti artisti partono dai presupposti messi in campo dalle avanguardie storiche – quelle che più si sono spese per mettere in discussione lo statuto dell’opera – appropriandosene, per volgerli con maggiore impegno ed energia verso una critica delle istituzioni, utilizzando, in quest’operazione, gli stessi strumenti, protocolli, forme retoriche serviti per consolidare potere ed autorità.

Contemporaneamente, le forme dei linguaggi e dei generi artistici vengono poste in opposizione di fase, a produrre quella forma di “tabula rasa” che imperava nel dibattito artistico. Bene, l’azzeramento non è avvenuto; piuttosto, abbiamo assistito ad un cambio di passo, ad un trapasso che ha portato ad esplorare il simulacro, il perturbante, la post verità, cioè quel territorio del pensiero dove ci si trova al cospetto di soggetti che, privati della loro referenza, sono nati e cresciuti nell’apparenza, rinforzati dall’ipertrofi co sviluppo di narrazioni, immagini, relazioni nella dimensione ipermediale. Gli schermi e le immagini che vengono eretti nel mondo dell’arte, ormai – da quando Peter Burger faceva osservare il fenomeno nel suo reazionario testo “Teoria dell’Avanguardia” – hanno prediletto una forma di guerriglia rispetto ad una guerra dichiarata, come poteva avvenire, ed è avvenuto, nel combattimento per un’immagine, e non solo in ambito fotografi co, con le avanguardie storiche. La Neo Avanguardia ha iniziato quel che ora appare manifesto nella produzione dell’immaginario: si è preferito produrre un immaginario latente, una forma di inconscio dell’immagine che riesce ad occultarne l’evidente stacco dalla realtà ed ad elaborarne il lutto. Le immagini le opere le ossessioni oggi prodotte nel territorio della ricerca artistica, non si mostrano con evidenza; si smarriscono e si confondono col fl usso della comunicazione di massa, vengono trasportate dentro una dimensione residuale, non vogliono richiamare su di sé alcun interesse, attenzione, fascinazione, foss’anche di disgusto di dileggio o di scandalo. Le immagini, le strutture, le forme espressive messe in atto dale pratiche dell’arte contemporanea fi gurano anonime, diffuse, a bassa tensione; l’oggetto è sempre più simile al ready-made di un ready-made prodotto negli anni ’10 del ‘900, ad un fotomontaggio di un fotomontaggio degli stessi anni; così, l’immagine dell’opera è sempre più simile allo stereotipo dell’immagine nella comunicazione di massa che a suo tempo l’aveva fagocitata. Il tutto vive in un sottobosco a prima vista non evidente, un fenomeno che ha preferito perdere l’apparenza necessaria e condurre la sua battaglia nelle retrovie. Possiamo dire che l’Avanguardia è divenuta una Retroguardia. Ready-made e fotomontaggio, entrambi, non sono più praticabili e percorribili attraverso la via della ricerca. Entrambi sono stati invasi dai sistemi che governano la produzione di massa della merce. Da tempo – come ci ha insegnato Andy Warhol – non consumiamo più un prodotto ma quella particolare griffe che produce il prodotto; cioè, più precisamente, consumiamo la sua aura, il suo valore aggiunto, la sua esponibilità, come ci ha imposto di fare la pubblicità. Al di là dell’immagine – parodiando un celebre testo di Max Ernst sulla pittura; ma non si tratta più di alterare il sopra o il sotto dell’immagine, quanto invece di trascenderla, di dimostrarsi ndifferenti, di riprodurla dimenticando la sua autorialità. Molti artisti dagli anni ’90 hanno preso atto di questa necessità ed tilizzano l’immagine come una risorsa condivisa, elaborando interventi su di essa; interventi che si presuppongono incompiuti ed in corso di sviluppo ed ulteriore trasformazione. Molte opere del presente assumono il signifi cato dell’indistinto, dell’aporia, del territorio di cui non si conoscono gli strumenti e le modalità per percorrerlo. L’opera si delinea come parte di una complessità che si attiva e si relaziona, contemporaneamente, con la distanza spazio-temporale e con la simultaneità. L’opera, ed il nuovo in essa latente, per essere isolati e defi niti, necessitano di relazioni di connessioni di compatibilità, necessitano della complicità del pubblico che la faccia funzionare, come un televisore che si può accendere con un dispositivo di controllo a distanza. L’opera non è fi nita, l’opera rende possibile un suo utilizzo. All’opera c’è da chiedere: “Che cosa ci posso fare?”, piuttosto che: “Che cosa signifi ca?”. E’ divenuta un element di tramite, un ispositivo di connessione piuttosto che un dispositivo terminale o di origine. Più sono gli ambiti che si connettono col nuovo dell’opera, maggiore è la sua capacità di permanere attiva nel tempo e scambiare e ricambiare tensioni e riferimenti. La frammentarietà delle identità individuali sembra trovare riscontro nella frammentazione e ricomposizione virtuale lasciate in opera nell’utilizzo dell’opera stessa. L’emergere delle infi nite soggettività che la contemporaneità ha reso possibile con la proliferazione delle immagini, ha richiesto un corrispondente piano di ricomposizione del tutto, per dar corso a quei percorsi collettivi auspicati nella produzione contemporanea dell’arte. Buona parte delle opere più attente ai temi della contemporaneità fa opera di collegamento, di legame, producendo spazi ed ambiti di dialogo aperti e ibridi, che restano percorribili per l’utilizzo da parte del fruitore. Si potrebbe dire che le opere d’arte alla fi ne del nuovo abbiano consumato l’apparenza di annunciatrici di cambiamenti e nuovi mondi, per essere piazzole di sosta dove assestarsi, relazionarsi, confrontarsi, per poi riprendere la navigazione. Non ci sono nuovi mondi là fuori da scoprire, piuttosto si tratta di percepire i mondi che ci portiamo sulle nostre spalle. Il nuovo, da sempre, è stato l’antico rimescolato.

Paolo Toffolutti